Una strage silenziosa: la caccia spietata alle tigri

La tigre ha da sempre ispirato l’immaginario collettivo quale simbolo di coraggio, forza, audacia e passione: ma, oggi, è ancora a rischio estinzione.

E’ uno dei simboli dello zodiaco cinese; dall’epoca imperiale rappresenta regalità, vittoria e, assieme ai miti del dragone e dell’unicorno, è utilizzata come insegna di Stato ed emblema dell’esercito. Ma ad oggi, in tutta l’Asia, se ne possono contare poco più di tremila esemplari, minacciati dalla criminalità organizzata locale, che lucra in modo spropositato sulla vendita di organi e pelli, e dall’avanzata delle città, che minaccia continuamente il loro habitat naturale.

Il bracconaggio, in India come in Cina, già da più di un ventennio ha causato la morte di un numero incalcolabile di esemplari, e l’omicidio di guardie forestali coraggiose che da sempre cercano di proteggere un patrimonio faunistico mondiale. L’Interpol aveva denunciato il dramma alla fine degli anni ’70 a causa della nascita di una “mafia”, che in India chiamano “Katha”, specializzata nel traffico di droga, armi e animali, con una manodopera specializzata nella lavorazione e nella vendita di pelle e ossa di tigri e di rinoceronti. In virtù di questa minaccia nacque il “Progetto Tigre” grazie all’impegno di Indira Gandhi.

Giampaolo Visetti, dalle pagine del sito di Repubblica, riporta che «nell’ultimo Anno della Tigre, in Cina, un giornale di Shanghai ha scritto: «Questo capodanno più che una festa rischia di essere un funerale.» Il Wwf cinese, rappresentato da Zhu Chunquan, direttore per la tutela della biodiversità, è chiaro: entro trent’anni la tigre rischia di restare davvero solo un segno dello zodiaco, e «l’ultima tigre allo stato brado potrebbe morire prima del 2040». In Cina sopravvivono «non più di 50 esemplari selvatici; al confine tra Cina e Russia, vagherebbero ancora una ventina di tigri siberiane, le più grandi, spesso bianche; nel centro-ovest del Paese, sotto il Tibet, sopravvivono circa 20 tigri del Bengala, provenienti dall’India; nello Yunnan, regione ancora ricca di boschi, sono stati registrati dieci esemplari indocinesi, ormai isolati; nel meridione cinese si sono purtroppo estinte.»
Nello specifico, nel sito del WWF (dati del 2011), sono ben evidenziate le differenze delle sottospecie di Panthera tigris superstiti: la tigre indiana conta non più di 1800 esemplari che vivono in libertà per i quali il WWF, aderendo al “Progetto Tigre”, collabora in 23 riserve, nuove o già esistenti, presenti oggi in India, in Bangladesh e in Nepal; la tigre siberiana o tigre dell’Amur (Panthera tigris altaica) è il felino più grande del mondo, con la sua lunghezza di 3 metri e 15 centimetri, coda compresa, e se contano 450 circa, considerando tutta la Russia, dove il WWF sta lavorando per la loro conservazione; 300 individui di tigre indo-cinese (Panthera tigris corbetti) sono presenti in Tailandia, in Birmania, in Vietnam e in Cambogia; non più di 400 sono le tigri di Sumatra (Panthera tigris sumatrae) che vivono allo stato libero; infine, la tigre Malese (Panthera tigris jacksoni) vive nella penisola malacca e conta circa 500 individui in natura. Purtroppo alcuni Paesi, sia per un fatto tradizionale che per la presenza di Cinesi, alimentano il mercato con la richiesta di “farmaci” che vengono ottenuti dalle tigri: Giappone, Singapore, Corea del Sud e Stati Uniti (per le numerose comunità cinesi). Sono da sempre attribuiti a ossa e denti del felino poteri antidolorifici e antireumatici, nonché afrodisiaci per una buona attività sessuale.

E pensare che basterebbe poco per “ripopolare” le terre delle tigri: in soli 110 giorni di gestazione la femmina partorisce tra i 3 e i 5 piccoli, e dopo venti mesi è già pronta per un altro parto. Purtroppo però al mercato nero, una madre con cuccioli può valere più di diecimila dollari. Le politiche dei governi, unitariamente ad enti internazionali quali il WWF, stanno cercando di coinvolgere le popolazioni di agricoltori e allevatori locali, un tempo acerrimi nemici delle tigri che razziavano i greggi, fornendo loro anche un’occasione di lavoro.

La scheda del WWF

Nome scientifico: Panthera tigris
Inglese: Tiger
Classificazione Red Data Book IUCN: EN-Endangered (minacciata)
Distribuzione originaria: Fino alla fine del 1800 la specie era diffusa dalla Turchia orientale, attraverso l’Asia fino al Mare di Orkholtsk, a sud attraverso il subcontinente indiano e l’Indocina fino a Sumatra, Giava e Bali.
Distribuzione attuale: Indocina, Indonesia (Sumatra), Asia continentale orientale, India: complessivamente non più di 3200 animali.

 

Bibliografia:

Guerrieri… a quattro zampe

Sin dall’antichità, molti animali hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita e sviluppo della comunità umana, nel bene e  nel  male. I cani, da sempre migliori amici dell’uomo, sono stati impiegati – purtroppo – in guerra, ma anche in importanti opere di salvataggio

di Gaia Nannicini e Fabio Figara

Da più di 5000 anni i cani sono stati impiegati dall’Uomo in azioni di ricerca e di combattimento. In antichità erano addestrati appositamente per attaccare a branchi la cavalleria e la fanteria nemiche.

Addirittura Alessandro magno fece incrociare il cane da guerra gigante dell’Epiro con il più piccolo mastino indiano, creando una nuova creatura, formidabile nella caccia e sui campi di battaglia: il “molosso”, dal muso largo e corto, divenne protagonista dei campi di battaglia e nelle battute di caccia. Questa nuova “razza” canina incontrò anche il favore dei romani, che li impiegarono durante la campagna di conquista della Britannia e, successivamente, nei violenti giochi circensi insieme ad altre creature. Il loro erede è il “mastino napoletano”.

Anche durante le guerre puniche, che videro lo scontro tra la civiltà romana e i cartaginesi, questi ultimi non si peritarono di impiegare cani da guerra, condotti da veterani vestiti di pelle di leone.

Nei secoli successivi l’impiego dei cani per la guerra e per la caccia trova numerose conferme nelle fonti storiche e artistiche. I cani spagnoli, tuttavia, furono i più feroci, e utilizzati nella conquista delle Indie: mastini incrociati con levrieri, nutriti con carne umana, seminarono molta sofferenza tra le tribù indigene. Possiamo considerare discendenti di questi animali i Cuban Bloodhound, che furono successivamente impiegati dall’esercito americano nella prima metà del XIX secolo. Dal 1800, infatti, il cane cominciò a essere sottoposto sempre a nuovi addestramenti, e impiegato sul campo, tanto da meritare medaglie. Ad esempio, “Moustache” era il mastino francese che, durante la battaglia di Austerlitz, fu decorato perché aveva contribuito ad evitare che la bandiera del suo reggimento cadesse in mano nemica.

Anche nel nostro esercito, così come in tutti quelli del mondo, i cani cominciarono con il tempo ad assumere ruoli da protagonista in vari impieghi: soccorso, guardiania, esplorazione, scambio di messaggi, guida, trasporto materiali, anti-mine e ricerca bombe. In Italia, solo verso la fine del secolo scorso, reggimenti di Bersaglieri e di Fanteria “arruolarono” i primi cani, ottenendo ottimi risultati, toccando il culmine durante le due guerre mondiali. Ancor oggi vi sono reparti cinofili nel nostro Esercito che, nelle aree a rischio dei teatri operativi, se ne servono principalmente – oltre che per compiti di sorveglianza – per scoprire, grazie al fiuto, armi, munizioni, e i temibili IED (improvised explosive device). Durante la guerra di Libia (1911) furono inviati in Nord Africa circa 140 animali, prelevati sia dalla Regia Guardia di Finanza che da privati: accompagnati da 12 soldati, fin da subito vennero impiegati nella ricerca dei feriti, nella sorveglianza e nel trasporto munizioni. Si trattava di cani di razza “pastore sardo” perché considerati “intelligenti, di fiuto finissimo, aggressivi e molto adatti a segnalare nemici nascosti tra le fratte o arrampicati sulle palme”. Nella Grande Guerra il cane si dimostrò più utile rispetto al mulo. Come riportato nel bell’articolo di Andrea Cionci* su La Stampa, «l’Ufficio storico dell’Esercito ci ha fornito una relazione della brigata Pistoia, del 1916, che ben li descrive. “L’addestramento dei cani non richiede molto tempo, e presto si abituano allo scoppio vicino dei proiettili d’artiglieria. Rispetto ai muli, i cani possono giungere, allo scoperto, in maggiore prossimità della prima linea e il loro mantenimento è di pochissimo costo”. Il cane infatti, consumava metà della razione di pane e carne giornaliera del soldato e si accontentava dei rimasugli delle cucine.» Se il mulo, per il quale, fra l’altro, occorreva un mangime specifico, aveva bisogno di almeno 30-40 litri d’acqua al giorno, al cane ne bastavano 3 o 4. Inoltre, non aveva bisogno del maniscalco e, ben più degli equini, si rivelava resistente agli agenti atmosferici, e poteva essere reperito ovunque e con facilità, tanto che nella Prima guerra mondiale, fra i reparti, vi erano cani di tutte le razze, perfino incroci.

Essendo inoltre più piccolo e agile del mulo, era sottoposto a una mortalità minima sul campo di battaglia. Fra i due conflitti, il programma sui cani da guerra conobbe un ulteriore sviluppo. Alla fine degli anni ’30 esisteva un Centro militare apposito presso l’XI Corpo d’Armata di Udine, dove venivano selezionati e addestrati con grande cura solamente pastori tedeschi, destinandoli soprattutto al collegamento, alla guida e al trasporto di ordini, divisi rigorosamente per il tipo di impiego. Aumentarono anche i requisiti per il personale addetto, che doveva essere “volontario e volonteroso, di buon carattere, senza precedenti politici o penali, alfabetizzato e unicamente dedito alla cura del cane”.

Usati in ogni ambiente, fu soprattutto sulla neve, con i reparti alpini, che divennero indispensabili trasportatori di viveri, munizioni e feriti: in questo caso fu soprattutto il pastore tedesco, già selezionato e addestrato in Germania presso la scuola di Kummersdorf, ad essere utilizzato in Italia e addirittura in Giappone. Purtroppo, durante il secondo confitto mondiale, i cani furono utilizzati anche in modo cruento dall’esercito sovietico, ovvero come cani-mina, addestrati a cercare il cibo sotto i carri armati: venivano poi dotati di un ordigno anticarro e, dopo un adeguato periodo di digiuno, lanciati contro i mezzi corazzati nemici. Una tattica che si rivoltò contro gli stessi sovietici, in quanto tale espediente, colpì duramente il morale dei soldati e perché, a volte, le povere bestie si infilavano anche sotto i carri armati sovietici.

Oggi fortunatamente i cani sono addestrati dalle forze di polizia e di soccorso e dall’esercito per azioni di recupero, salvataggio, ricerca di sostanze stupefacenti, armi e bombe. Tuttavia anche gli amici a quattro zampe di Esercito e Polizia vanno “in pensione”, dopo anni di intensa attività operativa che li vede impegnati – con il loro conducente – in molte missioni, sul territorio italiano o all’estero. Ma ciò non vuol dire che non possano comunque continuare la loro vita, dando e ricevendo affetto a coloro che sono pronti ad accoglierli procedendo con un’adozione! È possibile adottare un cane poliziotto collegandosi al sito https://www.poliziadistato.it/articolo/adotta-un-cane-poliziotto-1, da cui poter visionare le schede anagrafiche, le specifiche attitudini e i profili psicologici degli stessi, consentendo così una valutazione appropriata dell’impegno che s’intende assumere, oppure contattando il Centro di Coordinamento dei Servizi a Cavallo e Cinofili di Ladispoli (RM), al nr. 06 99240134. Successivamente i soggetti richiedenti dovranno compilare un modulo di richiesta, ed inviarlo presso il citato Centro via PEC (coordservizicavalloecinofili.ladispoli.rm@pecps.poliziadistato.it) o via Raccomandata A/R, indirizzata al Centro di Coordinamento dei Servizi a Cavallo e Cinofili, Via Aurelia km 37,825, 00055 Ladispoli (RM).

Allo stesso modo si può adottare un nuovo amico a 4 zampe dell’Esercito: https://www.esercito.difesa.it/organizzazione/capo-di-sme/comando-logistico-esercito/Adotta-un-cane-con-le-stellette/.

 

*https://www.lastampa.it/2017/04/12/societa/guardiani-esploratori-guide-o-messaggeri-lepopea-dimenticata-dei-cani-da-guerra-Bic5UuLAmzXrKDiNt2RQxM/pagina.html

 

 

Una complessa “pandemia sociale”

Il lockdown, dovuto alla pandemia di Covid-19, ha accentuato situazioni di fragilità già esistenti, e ne ha causate di nuove. Compito del giornalismo è accendere i riflettori su tali problemi 

di Fabio Figara

 

Un periodo difficile, un’emergenza complessa da affrontare e, purtroppo, ancora da superare: la chiusura forzata delle attività, la necessità di limitare quanto possibile incontri, contatti e spostamenti ha costretto gran parte dell’Umanità a ripensare al proprio ruolo sulla Terra, a ridimensionare quella sensazione di “invincibilità”, di “invulnerabilità” che il progresso tecnologico e scientifico hanno insinuato. La pandemia ha ricordato ad ognuno la naturale fragilità della condizione umana.

Ma ha anche permesso di conoscere tanti eroi silenziosi che, ogni giorno, si adoperano per aiutare gli altri, e contribuito, pur in mezzo ad innumerevoli tragedie, a risvegliare nelle coscienze un senso di appartenenza alla comunità, attraverso numerose opere di sostegno e di volontariato.

In questo contesto il giornalismo ha avuto un ruolo fondamentale, un’importanza innegabile, mantenendo costantemente aggiornata la popolazione sull’evolversi della situazione, pur non senza incontrare numerose difficoltà, soprattutto nel contrastare le fake news dilaganti nella rete e gli interventi, piuttosto approssimativi, di una pletora di personaggi pubblici ed egocentrici commentatori di dubbia credibilità.

Tuttavia è anche un momento in cui l’informazione ha svelato alcune criticità: concentrandosi eccessivamente su statistiche di ricoveri e di infettati, di pazienti deceduti e guariti (trattando troppo spesso tali argomenti come un mero calcolo matematico), sugli scontri tra presidenti di Regione e Governo centrale, o tra maggioranza e opposizioni, sembrano soffrire di una certa marginalità problemi che, in realtà, proprio a causa della pandemia, hanno conosciuto un notevole peggioramento. A parte il lavoro e la disoccupazione, l’immigrazione e l’istruzione, che restano temi “caldi” per la ricerca infinita di soluzioni, l’indebolimento del ceto medio e lo sfruttamento di chi si trova alla soglia di povertà, gli affari miliardari del mercato degli stupefacenti e del prestito a usura, l’intervento della malavita organizzata che lucra inserendosi in condizioni di disagio estreme là dove lo Stato non giunge (welfare criminale) hanno conosciuto un incremento esponenziale: ad esempio, nei giorni del

lockdown, il consumo di stupefacenti è triplicato, soprattutto tra una fascia di popolazione medio-alta composta da professionisti, divenuti consumatori abituali, che non troveremo mai agli angoli delle strade o nascosti tra le siepi di un parco, ma che concludono i propri “affari” attraverso il dark web – la rete internet oscura su cui gira il traffico illegale d’armi e molto altro – e una rete di “corrieri” della droga; numerose imprese, a causa del calo di liquidità e dei consumi, sono finite nelle mani di usurai ed estorsori, così come molti semplici cittadini; o, ancora, lo sfruttamento sessuale – anche dei minorenni – che ha conosciuto un aumento esponenziale on-line e “in casa”, schiavi moderni di cui spesso si tace. Una vera e propria “pandemia sociale”, come è stata definita, che non può essere ignorata, e di cui la società sta già subendo le conseguenze. È vero che la crisi del settore, la mancanza di fondi e lo svuotamento delle redazioni stanno modificando, ormai da tempo, la professione, problemi indubbiamente aggravatisi con la pandemia: ma il giornalismo può e deve cogliere tale sfida, per continuare a servire i cittadini, ed essere ancora vero e indiscusso baluardo della democrazia.

 

Lo stile di Raffaello

Una vita breve ma molto intensa, costellata di opere eccezionali, meraviglie dell’arte rinascimentale al centro di una mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale, a Roma, in occasione del cinquecentenario della morte. Nella Città eterna, in cui il pittore operò a lungo, le sue spoglie mortali riposano all’interno del Pantheon. Ne abbiamo scritto sul numero 29 della nostra rivista Omnibus.

“Il pittore ha l’obbligo di fare le cose non come le fa la natura, ma come ella le dovrebbe fare.”

di Fabio Figara

“Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell’accumulare in una persona sola l’infinite ricchezze de’ suoi tesori e tutte quelle grazie e’ più rari doni che in lungo spazio di tempo suol comparire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffael Sanzio da Urbino”: a scrivere questo elogio del pittore urbinate è il noto artista e storiografo aretino Giorgio Vasari nel 1568, nell’incipit della parte biografica a lui dedicata nella sua opera Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori.

Raffaello nacque a Urbino il 6 aprile 1483 dal pittore Giovanni Santi e da Magia di Battista di Piero Ciarla. Proprio dal padre ricevette la prima educazione artistica, percorso che approfondì successivamente operando tra la sua città natale, città umbre (in particolare in Città di Castello con una Crocifissione del 1503 e il ben noto Sposalizio della Vergine del 1504, in cui si firma RAPHAEL URBINAS) e toscane (una prima collaborazione col Pinturicchio lo vede impegnato nelle decorazioni della Biblioteca Piccolomini di Siena), tra cui, in particolare, a Firenze, dove approfondisce il tema della Madona con il Bambino, pur tornando varie volte a Perugia e ad Urbino (è del 1505, ad esempio il dittico, dipinto per i Montefeltro, con San Giorgio e il drago e San Michele Arcangelo). Pare sia degli inizi del ‘500 il primo viaggio a Roma, per poi ritornarvi definitivamente – salvo alcuni brevi viaggi a Firenze e a Bologna – dal 1508. Nella Città eterna entrò a far parte del gruppo degli artisti a cui il Papa Giulio II aveva commissionato le decorazioni dell’ala nord dei palazzi Vaticani. A Raffaello fu affidata la “Stanza della Segnatura” – nello stesso periodo in cui Michelangelo lavorava per la volta della Cappella Sistina – punto di esordio romano dell’artista, e la “Stanza di Eliodoro”. La prima struttura prende il nome dal più alto tribunale della Santa Sede, la “Segnatura Gratiae et Iustitiae”, presieduto dal Pontefice. Inizialmente la stanza fu adibita da Giulio II (pontefice dal 1503 al 1513) a biblioteca e studio privato: secondo una predisposizione precisa, le opere contenute in essa tendono a rappresentare le tre massime categorie dello spirito umano: il Vero, il Bene e il Bello. La prima, il Vero, è illustrata nella Disputa del SS. Sacramento (Vero soprannaturale o la teologia) e nella Scuola di Atene (Vero razionale o la filosofia); la seconda, il Bene, vede la sua raffigurazione nelle Virtù Cardinali, nelle Virtù Teologali e nella Legge mentre la terza, il Bello, nel Parnaso con Apollo e le Muse. La volta è ricca di affreschi raffiguranti allegorie della Teologia, della Filosofia, della Giustizia e della Poesia. Sotto Leone X (pontefice dal 1513 al 1521) l’ambiente fu adibito a studiolo e stanza da musica, nella quale il pontefice custodiva anche la sua collezione di strumenti musicali.

Nel frattempo, a seguito della scoperta della statua del Laocoonte, nel 1510 Vasari riporta che Raffaello divenne arbitro di una gara tra scultori per l’esecuzione di una copia in bronzo della stessa e, successivamente, progettò probabilmente la cappella Chigi in S. Maria del Popolo a Roma. Il 1° novembre del 1513 venne affiancato a Bramante nei lavori della Fabbrica di S. Pietro, a cui subentrò l’anno successivo come magister operis a causa della morte di quest’ultimo. Continuò la sua fervente attività artistica: oltre che per i Papi, riuscì comunque a lavorare per committenti illustri, tra cui Agostino Chigi, e a realizzare numerose pale d’altare, ritratti e progetti architettonici per palazzi e residenze nobiliari. Purtroppo, a causa di una malattia grave, il 6 aprile 1520 morì a Roma, a trentasette anni, lasciando all’Italia e al mondo intero un’eredità immane. Sempre il Vasari riporta che la sua ultima opera, la Trasfigurazione di Cristo, venne esposta insieme al suo corpo, facendo «scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava». Considerato il più grande pittore del suo tempo, la città parve fermarsi nella commozione e nel rimpianto, mentre la notizia della scomparsa si diffondeva con incredibile rapidità in tutte le corti europee che ben conoscevano il suo talento. S’interrompeva non solo un percorso artistico senza precedenti, ma anche l’ambizioso progetto di ricostruzione grafica della Roma antica, commissionato dal pontefice, che avrebbe riscattato dopo secoli di oblio e rovina la grandezza e la nobiltà della capitale dei Cesari, affermando inoltre una nuova idea di tutela. Sepolto secondo le sue ultime volontà nel Pantheon, simbolo della continuità fra diverse tradizioni di culto, forse l’esempio più emblematico dell’architettura classica, Raffaello divenne immediatamente oggetto di un processo di divinizzazione, mai veramente interrotto, che ci consegna oggi la perfezione e l’armonia della sua arte.

Dopo cinquecento anni la mostra, organizzata nei locali delle Scuderie del Quirinale, racconta la sua storia e insieme quella di tutta la cultura figurativa occidentale che l’ha considerato un vero e proprio modello, ed è articolata secondo un’idea originale, proponendo un percorso che ripercorre a ritroso l’avventura creativa di Raffaello, da Roma a Firenze, da Firenze all’Umbria, fino alla nativa Urbino. Un flash-back che consente di ripensare il percorso biografico partendo dalla sua massima espansione creativa negli anni di Leone X, apprezzando la prefigurazione di quel linguaggio classico che solo a Roma, assimilata nel profondo la lezione dell’antico, si sviluppò con una pienezza che non ha precedenti nella storia dell’arte. «L’arte di Raffaello, la luce dei suoi dipinti, i colori delle sue opere sono parte integrante del patrimonio dell’umanità – ha spiegato Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, all’inaugurazione della mostra – così come lo sono l’opera di Leonardo da Vinci e i versi di Dante Alighieri. È per questo motivo che le istituzioni si sono mosse per tempo nell’organizzare le celebrazioni di questi tre giganti della cultura mondiale, coincidenti nella scansione del triennio 2019, 2020 e 2021, segnando un cambio di passo decisivo. Con la legge istitutiva dei tre comitati nazionali del 2017, l’Italia ha scelto di prepararsi a queste ricorrenze, con la giusta programmazione che richiedono simili eventi, e di superare la consuetudine all’immediatezza che non permetteva un pensiero lungo e una visione.»

Un artista eccezionale, un maestro che ha vissuto per l’amore verso ogni forma d’arte, verso la bellezza, la natura, le proprie donne, nei confronti di tutto ciò che lo circondava. «Pochi sono gli scritti che ci ha lasciato Raffaello e senz’altro – ha spiegato Eike D. Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze – il più interessante, redatto con il supporto letterario dell’amico Baldassarre Castiglione, è la famosa Lettera a Leone X. Essa ci parla di conservazione, restauro, rispetto del patrimonio, responsabilità nell’assicurare al futuro quel passato che, per artisti come lui, era tutt’uno con il presente; ma ci parla anche di pace. Se volessimo esprimere le ragioni per le quali i due curatori della mostra, Marzia Faietti e Matteo Lafranconi – accompagnati da uno stuolo di studiosi, specialisti nei vari settori, coordinati da un comitato scientifico internazionale presieduto da Sylvia Ferino-Pagden –, hanno abbracciato con entusiasmo questo progetto, certamente non facile e non privo di incognite, dovremmo dapprima indicare la consapevolezza che Raffaello è ancora oggi, per le giovani generazioni (e non solo per loro), un maestro impeccabile di professionalità e di dedizione per il proprio lavoro.»

Due volti… Un solo amore? La “Fornarina” a confronto con la “Velata”

Vasari narra di una donna «la quale Raffaello amò sino alla morte» e della quale «fece un ritratto bellissimo, che pareva viva viva (…)». È piuttosto complesso definire l’identità di questa giovane donna, la “Velata”, abbigliata con eleganza, dalla veste in seta marezzata bianca con rifiniture oro. Una tradizione letteraria sviluppatasi nei secoli vorrebbe riconoscerla come la stessa “Fornarina”, cioè Margherita, figlia del senese Francesco Luti, popolana per cui Raffaello nutriva una forte passione. Fornarina” potrebbe intendersi, rispolverando una concezione settecentesca, come “amante”, ma è più avvalorata l’ipotesi di “figlia di un fornaio” della contrada romana di S. Dorotea, ovvero Francesco Luti. Molti biografi del pittore la indicano come la donna che avrebbe portato Raffaello ai suoi noti eccessi amorosi, atteggiamenti che avrebbero causato la sua morte precoce. Dopo una lunga disputa sull’autenticità dell’opera per mano di Raffaello (nonostante la firma sul bracciale posto intorno al braccio sinistro si era pensato ad uno dei suoi più importanti allievi, Giulio Romano), e indagini diagnostiche, si è attribuita con certezza l’opera al maestro urbinate. Forse solo il volto risente di alcuni interventi del Romano, ma la critica non è concorde.

Omnibus 29

Consigli di lettura

La Storia dell’Arte, vol. 9: il Rinascimento, collana a cura di Stefano Zuffi, 2006, Mondadori Electa S.p.A., Milano, Edizione speciale per La Repubblica;

 

Gregori Mina, Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, Electa, Milano, 1984

 

AA. VV. Raffaello. I classici dell’Arte, 2003, RCS Quotidiani S.p.A.- Rizzoli-Skira, Milano.

 

Cherchi Antonello, Dalla morte alla celebrità: mostra a ritroso per celebrare il genio di Raffaello, https://www.ilsole24ore.com/art/dalla-morte-celebrita-mostra-ritroso-celebrare-genio-raffaello-ACl9ScLB?fromSearch

San Francesco, innamorato del Creato

Il 4 ottobre si festeggia il passaggio a nuova vita del Santo di Assisi, patrono d’Italia, degli animali e degli ecologisti.

Chi, venendo a contatto con la figura di San Francesco, non ne subisce il fascino? Questo Santo spiazza chiunque gli si avvicina: lo immaginiamo povero, scalzo, indifeso, malnutrito, malaticcio… e all’improvviso ci appare ricco di gioia, forte nella prova, maestro di religiosità… insomma un gigante nella santità! E’ questo Santo che ci fa intuire la vera natura di Gesù Cristo, mite e umile di cuore. Lessi una volta che, quando Francesco morì e andò in paradiso, mentre si avvicinava al trono di Dio, gli altri Santi, scostandosi per farlo passare, si domandavano l’un l’altro se fosse Gesù o Francesco.

Oggi, in questo mondo che tutto travolge, dove tutto appare effimero, il vedere attraversare le nostre strade da persone che vestono un saio e calzano sandali a piedi nudi ci interroga sul nostro modo di vivere e di essere: questi uomini che continuano l’opera di Francesco (mi piace chiamarlo così confidenzialmente), mostrando al mondo la vera letizia, ci rimandano immancabilmente al loro maestro, che tutto ha imparato da Colui con cui soleva intrattenersi in lunghi colloqui, lì, sulla Verna… Infatti, il compito dei Santi è proprio quello di portarci a Cristo: quando guardiamo a Francesco, se riuscissimo a staccarci dallo stupore che ci suscita la sua vita e a rivolgerci immediatamente alla figura di Gesù, ripercorrendo mentalmente tutta la Sua vicenda terrena, immaginandoci di essere alla Sua sequela, sotto il Suo sguardo misericordioso… ne resteremmo affascinati come lo fu Francesco che visse in straordinaria umiltà e “ sposò” la povertà, prendendo alla lettera quanto dice Gesù nel Vangelo: “… non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete… Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?… Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma.” (Luca 12, 22-34).

Di S. Francesco conosciamo molto, quasi tutto; persino i non credenti si interessano alla sua vita e alle sue opere. Perciò non intratterrò i lettori sul racconto della vita e delle opere di questo Santo di cui accennerò solo brevi notizie: nacque ad Assisi nel 1181 o ’82 da un ricco mercante, Pietro di Bernardone; dopo una giovinezza vissuta nell’agiatezza e nei divertimenti, dopo una malattia, nel 1209 decise di dedicarsi interamente alla preghiera e alla predicazione: rinunciò alle proprie ricchezze, suscitando l’ira del padre e il dileggio  dei suoi concittadini e, riunendo intorno a sé i pochi amici consapevoli che Francesco era divenuto veramente discepolo di Cristo, costituì la prima comunità dedita in assoluta povertà alla diffusione del messaggio evangelico che Francesco svolse sia in Italia che fuori d’Italia ininterrottamente fino alla sua morte avvenuta nel 1226, due anni dopo aver ricevuto le stimmate. La regola dell’ordine, che il Santo fu costretto ad emettere per l’accresciuta quantità dei seguaci (approvata oralmente nel 1210 da papa Innocenzo III che la riteneva molto rigida e perciò difficile da mettersi in pratica), fu approvata definitivamente da papa Onorio III nel 1223. Umile, non volle né per sé né per i suoi, chiamati Minori, alcuna dignità ecclesiastica. Al Poverello di Assisi, patrono d’Italia, si deve la fondazione anche dell’ordine femminile delle Clarisse (così chiamate da Santa Chiara di Assisi, seguace di San Francesco) la cui rigida regola comprende anche la clausura, nonché del Terz’ordine francescano, costituito da laici.

Francesco amò molto la povertà, perché, come diceva, se Cristo per amore nostro si fece figlio di un povero falegname, anche noi dobbiamo vivere in povertà per amor suo. Parlava perciò della povertà come di una bella signora che diceva di aver sposato. Indossava una tunica ruvida di color bruno, mangiava (quando poteva) cibi semplicissimi e impiegava tutto il suo tempo nel distogliere, con parole ardenti di carità, gli ascoltatori dalla cupidigia delle ricchezze e delle grandezze, insegnando loro l’amore per la povertà che divenne la regola del suo ordine. Il suo amore per Dio, inoltre, comprendeva in sé l’amore della natura, creata appunto da Dio: insegnò al popolo ad amare gli animali e tutto quanto vi è nel creato, immergendosi continuamente in un afflato mistico contornato da una profonda gioia che nasceva in lui dalla consapevolezza di essere amato da Dio: è la cosiddetta letizia francescana!

IL CANTICO DI FRATE SOLE

Afferma il critico Luigi Russo ne “I classici italiani” che “… è buona abitudine di poeta dotto quella di far capo a delle fonti e a dei modelli letterari. Ed è noto che il “Cantico” è esemplato, e in certi punti letteralmente, sul “Cantico di Daniele dei tre fanciulli nella fornace ardente” e sul salmo 98 di David.”. E ancora: “… e la poesia e la letteratura non nasce mai dall’ignoranza. S. Francesco, sebbene esaltasse gli uomini idioti e senza lettere, fu amantissimo e rispettosissimo delle lettere.”. Il critico continua affermando che S. Francesco rispettava tutte le letterature, le sacre e le profane, come il più illuminato umanista, poiché era solito dichiarare che tutto quanto vi è di buono negli scritti non appartiene all’uomo ma a Dio soltanto, dato che da Lui procede ogni bene. San Francesco inoltre parlava e cantava in lingua francese ed è indubbio che conoscesse bene i romanzi di cavalleria francese perché nei suoi discorsi alludeva a immagini cavalleresche. Del resto coloro che scrivevano in volgare erano tutti esperti della tradizione classica, formati nella scuola!

Il latino restò per tutto il Medioevo la lingua ufficiale della Chiesa, della scuola e dell’alta cultura; tuttavia, proprio nel Medioevo le lingue parlate assursero a strumenti di espressione letteraria: nacquero così le lingue romanze proprio perché, accanto al latino scritto, esisteva quello “volgare”, cioè il latino parlato, fluido, mobilissimo, diverso da provincia a provincia, per lessico, per grammatica e per pronuncia: era il latino del volgo, usato per le necessità quotidiane, per i rapporti affettivi, per le più comuni relazioni sociali… e più il tempo passava e più urgente si palesava la necessità da parte dei letterati di scrivere in volgare per poter raggiungere con i loro scritti anche coloro che con il latino avevano scarsa o nessuna familiarità. In questo ambito socio-culturale si colloca “Il Cantico delle creature” di San Francesco. Questo componimento altamente poetico segna, infatti, la nascita della letteratura italiana in lingua volgare. Era il 1224, era notte e il Santo si trovava in una celletta presso S. Damiano, sofferente per una grave malattia agli occhi; era inoltre molestato dai topi e perciò si rivolse al Signore perché l’aiutasse a sopportare le sofferenze: il Signore gli parlò, promettendogli il paradiso; pieno, perciò, di gioia, all’alba raccontò tutto ai frati e decise di scrivere un cantico di lode a Dio che dettò a uno dei suoi frati. Esso è composto da due parti: nella prima il Santo loda Dio lodando le Sue creature (il sole, la luna, le stelle, ecc.); nella seconda egli loda Dio per quelle cose che conducono alla beatitudine del Cielo: le ingiurie, le malattie e le sofferenze (se sopportate con pazienza), nonché la morte che libera l’anima dal corpo… e poiché siamo tutti Sue creature, anche le cose sono considerate e chiamate dal Santo “fratello” e “sorella”. La prima parte è quindi di esultanza e di schietta felicità; la seconda di riflessione sulla condizione dell’uomo e sul suo destino di peccato e di redenzione, traducendosi in severa ammonizione.

I FIORETTI DI SAN FRANCESCO

Intorno alla figura di San Francesco sorse un gran numero di leggende delle quali molte sono raccolte nel volume intitolato “I fioretti di San Francesco”. Ad esso si sono ispirati molti artisti, pittori, scultori e poeti. Essi sono la traduzione di un’antica compilazione (certamente di un frate minore) intitolata “Actus beati Francisci et Sociorum eius”, del cui traduttore non si conosce il nome. Alcuni di questi “fioretti” riguardano la predica agli uccelli e l’episodio in cui a Gubbio ammansì un lupo.

SAN FRANCESCO SUPER TECNOLOGICO

La Sala stampa del Sacro convento di Assisi gestisce oggi una pagina Facebook che è riferita proprio al Santo, Francesco di Bernardone (@sanfrancescoassisi) e il sito è: www.sanfrancesco.org che conta nove milioni di accessi al mese!

San Francesco si festeggia il 4 ottobre.

MYRIAM DI NINNO FIGARA

(articolo tratto da Omnibus 21)

L’arte di Modigliani

Oltre 100.000 visitatori per la mostra organizzata dal Comune di Livorno insieme all’Institut Restellini di Parigi in occasione del centenario della scomparsa di Amedeo Modigliani

 di Fabio Figara e Gaia Nannicini

“Il tuo unico dovere è salvare i tuoi sogni” Amedeo Modigliani

 

Bambina in azzurro (Fillette en bleu)  Olio su tela, cm 116 x 73, 1918 Collezione privata
Foto di David Mark da Pixabay

È stata l’opera scelta come simbolo per la mostra dedicata all’artista livornese nella sua città natale, “Modigliani e l’avventura di Montparnasse. Capolavori delle collezioni Netter e Alexandre”, tenutasi nelle sale del Museo Città di Livorno, in Piazza del Luogo Pio, tra il 07 novembre 2019 e il 17 febbraio 2020: la Bambina in azzurro (pagina precedente), appartenente al periodo artistico finale di Modigliani, in cui i bambini, divenuti tra i soggetti preferiti dall’artista, erano rappresentati singolarmente o in coppia, seduti o in piedi. Ebbene, questa bambina, ignota, ha una peculiarità: è l’unica figura intera dipinta da Modigliani – chiamato amorevolmente Dedo dai suoi concittadini – con un tratto «sottile, essenziale, quasi inciso» in cui l’autore «circoscrive i lineamenti fini e le mani della bambina», tutto progettato in un «sottile gioco cromatico» tra l’azzurro della scena che si fonde con il nero della capigliatura e degli stivaletti. Dal volto «emergono le punte di spillo delle pupille ipnotiche e la piccola bocca rossa in mezzo all’azzurro variato dai toni lilla del fondo» (Francesca Marini). E questo è il tratto finale di una vita travagliata, sia per motivi di salute, che per le condizioni sempre al limite della povertà, soprattutto nel lungo periodo parigino. Una vita che lo ha reso, erroneamente, il «pittore che ha più etichette appiccicate addosso, da artista maledetto a bohémien senza un soldo, dedito solo all’assenzio e alle droghe, dal pittore dei colli lunghi a quello dei ritratti dagli occhi senza pupille», quando invece dalla sua arte fuoriesce una genialità che lo rende originale rispetto al quadro storico in cui è vissuto, con uno «stile particolarissimo» e un «modo di dipingere all’apparenza facile, ma foriero di una cultura fortissimamente italiana, con masse di colore e righe di contorno mediate dai secoli precedenti» (Alessandra Artale).

 

Vita e opere 

*Di unknown (Paul Guillaume?) – Institut Modigliani-Archives légales, Paris-Livourne, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4043252

 Amedeo Modigliani (nella foto, in alto, nel suo studio di Parigi*) nacque a Livorno il 12 luglio del 1884, in via Roma 38 (oggi è un museo d’arte), ultimo di quattro figli, da padre Flaminio, agente di commercio (la cui impresa fallì proprio nel periodo in cui nacque Dedo), discendente di una ricca famiglia ebrea sefardita, e da Eugenia Garsin, anche lei di famiglia ebraica, un ramo trapiantato a Livorno; sin dalla fanciullezza soffrì di numerose patologie che trascinerà lungo tutta la sua vita, malattie come la pleurite, il tifo con complicazioni polmonari e la tubercolosi. Un giovane colto, cresciuto nella cultura italiana, che amò profondamente grazie anche ai numerosi viaggi compiuti con la famiglia lungo tutto lo stivale e, una volta cresciuto, per personale curiosità e conoscenza. A Livorno, dopo gli studi presso il Ginnasio Liceo Classico Niccolini e Guerrazzi, iniziò il proprio percorso artistico nello studio del pittore Guglielmo Micheli, allievo di Giovanni Fattori, da cui usciranno moltissimi artisti post-macchiaioli. La madre appuntò nel suo diario, parlando della passione del figlio per la pittura: «(…) ne fa tutto il giorno e tutti i giorni con un ardore sostenuto che mi stupisce e mi incanta […] Io non me ne intendo ma mi sembra che per aver studiato solo tre o quattro mesi non dipinga troppo male e disegna benissimo…» (1899). Frequentò addirittura l’atelier stesso del Fattori, ormai anziano, e la “Scuola libera di nudo” di Firenze e di Venezia. Fondamentale per la sua maturazione artistica fu il trasferimento a Parigi nell’inverno del 1906, a Montmartre: qui fu a contatto con i gruppi d’avanguardia (soprattutto con i fauves), dove conobbe l’arte di Pablo Picasso, lo stile di Henri de Toulouse-Lautrec e di Paul Cézanne. La ricerca continua di nuove espressioni artistiche, l’esplorazione della figura umana, tema fondamentale della pittura di Modigliani, e il fascino dell’arte africana, portarono l’artista verso nuove frontiere dell’arte, così come rispecchiano le sue numerose opere. Nel 1907 conobbe il medico Paul Alexandre, che divenne un suo estimatore nonché collezionista delle sue opere. L’anno successivo espose sei opere al “Salon des Indépendants”, tra cui spiccavano L’ebrea e il Busto di donna nuda. Dopo un breve rientro a Livorno, nel 1910, sono frutto del suo ingegno il Violoncellista, Il mendicante di Livorno e La mendicante. Rientrato a Parigi, espose nuovamente agli “Indépendants”. In quel periodo iniziò ad emergere la sua personalità artistica, che vide Modigliani affacciarsi alla scultura, sua altra grande passione oltre ovviamente alla pittura. Nel 1912 espose al “X Salon d’Automne” otto sculture in pietra, teste allungate dalla bellezza angolosa e secca, che dimostrano il suo grande interesse per l’arte africana e arcaica. Circa sessanta disegni preparatori di opere monumentali mostrano questo suo grande interesse. Notevoli le teste “allungate”, come la scultura in pietra calcarea del 1911/12, conservata alla Tate Gallery di Londra; queste opere possono essere suddivise in tre diversi momenti artistici, in base al tipo di volumetria, al tratto per la creazione dei volti e ad altre peculiarità, che vanno definendosi nel tempo. Le teste hanno una dimensione costante di circa 60 centimetri.  Modigliani si concentrò inoltre anche sulle Cariatidi, figure dalle fattezze femminili tratte dall’architettura classica greca. Purtroppo, a causa delle precarie condizioni di salute – che si aggravarono con la lavorazione delle pietre e con l’uso di assenzio – Modigliani dovette presto abbandonare la scultura e dedicarsi solo alla pittura.

Dal 1913, lasciata la scultura, Modigliani si dedicò esclusivamente alla pittura, dipingendo ritratti e nudi. Gli anni successivi furono piuttosto travagliati: la Grande  Guerra portò la morte in tutta Europa, e oltre. Ma sono anche gli anni in cui l’artista livornese effettua nuove sperimentazioni artistiche, e conobbe molte donne che saranno importantissime nella sua vita, e che ritrarrà nelle sue opere. Nel 1917, infatti, dopo aver conosciuto Léopold Zborowski, poeta polacco e mercante d’arte, iniziò a ritrarre dei nudi, che rimarranno celebri nella storia dell’arte. La sua prima mostra personale avvenne nel dicembre 1917 presso la Galleria Weil, ma i suoi quadri (tra i quali Nudo con collana di corallo, Nudo rosso o Nudo sdraiato a braccia aperte) furono giudicati indecenti, contro il pubblico pudore, e di conseguenza fu ordinata la chiusura dell’esposizione. Conobbe poi Jeanne Hébuterne, l’ultimo grande amore della sua vita, da cui avrà anche una figlia, con la quale, nel 1918, si trasferì in Costa Azzurra con gli Zborowski. Parigi era scossa dai bombardamenti. Per Modigliani fu l’anno in cui sperimentò nuovi ritratti, usando come soggetto anche molti bambini, in contemporanea all’aggravarsi dello stato tubercolotico che lo portò alla morte, due anni dopo, nell’ospedale della Charité di Parigi. Il giorno successivo alla sua morte, la stessa Jeanne si suicidò. È la fine di una breve vita tormentata, vissuta in gran parte in miseria ma totalmente dedicata all’arte, seguendo il motto “il tuo unico dovere è salvare i tuoi sogni”. Le sue opere, vendute per pochi soldi sotto l’assillo del bisogno, raggiunsero, dopo la sua morte, prezzi altissimi e furono molto ricercate da gallerie pubbliche e da collezionisti di Europa e d’America.

Ritratto di Jeanne Hébuterne
olio su tela, 1918, Parigi, collezione privata
Par Amedeo Modigliani — The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN : 3936122202., Domaine public, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=155768

La burla delle false teste

È stato uno scherzo, di cattivo gusto, che ha fatto “scuola” nel mondo dell’arte e della ricerca storica e archeologica, le cui conseguenze, sfuggite di mano anche ai suoi ideatori, hanno avuto risvolti importanti non solo per la vita professionale di singoli esperti, ma anche per la città di Livorno, con una risonanza che ha superato, negli anni, i confini della nostra penisola. Una burla che inizia approfittando di una leggenda, secondo cui Modigliani avrebbe gettato nel Fosso mediceo tre teste in pietra serena nel lontano 1909. Più di settant’anni dopo, nel 1984, al Museo progressivo di Arte Contemporanea di Villa Maria fu organizzata una mostra: “Modigliani, gli anni della scultura”, con la presenza di sole quattro opere dell’autore. Purtroppo la mostra non ebbe il ritorno sperato, e si pensò al modo di risollevare le sorti dell’evento. I curatori, i fratelli Durbé, chiesero la possibilità di far dragare il Fosso mediceo, nella speranza di trovare queste prime leggendarie teste del maestro, e dare nuovo lustro all’iniziativa. Dopo lunghe e disperate ricerche, emersero miracolosamente dalle acque torbide due sculture in granito. Giornalisti e storici dell’arte si precipitarono per verificare: molti erano convinti dell’autenticità delle opere. Tutti tranne Carlo Pepi, critico d’arte e fondatore della Casa Natale Modigliani che, insieme a Federico Zeri e alla figlia del pittore livornese, Jeanne Modigliani, gridarono contro i falsi, un vero e proprio scandalo. Ma in diretta nazionale, tre studenti universitari, Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Ghelarducci dimostrarono  che erano stati loro, con un semplice trapano elettrico, a modellare le teste della leggenda…

Modigliani, Pablo Picasso e André Salmon, 1916
By Amedeo Modigliani (1884–1920) – Modigliani Institut Archives Légales, Paris-Rome http://www.museothyssen.org/thyssen/exposiciones/WebExposiciones/2008/modigliani/fundacion/fundacion9_ing.html, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4766641

La mostra del centenario

Amedeo Modigliani, Dedo, torna nella sua Livorno.
Avrebbe voluto farlo in quel lontano 1920 in cui la vita lo ha lasciato.

Lo aveva detto agli amici pittori, a Parigi in molti sapevano.

Ma la sorte ha avuto altre mire.
A 100 anni dalla morte siamo riusciti a far tornare l’anima di Dedo a Livorno, con le sue opere più belle, che per quattro mesi troveranno dimora nel Museo della Città”

 

Luca Salvetti
Sindaco di Livorno

 

“Modigliani e l’avventura di Montparnasse. Capolavori delle collezioni Netter e Alexandre”, curata da Marc Restellini, ha avuto un importante riscontro di pubblico (pur non mancando alcune critiche di esperti del settore come Marilena Pirrelli dalle pagine de IlSole24ore*), con l’esposizione di 26 opere del maestro livornese, oltre a più di un centinaio di altri capolavori dell’ “Ecole de Paris”, appartenuti a due collezionisti che hanno accompagnato e sostenuto “Dedo” nella sua vita artistica e non solo. Jonas Netter è stato un geniale collezionista, che ha raccolto molti e importanti capolavori dell’artista livornese, ma anche alcune delle opere più significative dell’ “Ecole de Paris”: in particolare, di Modigliani, sono state esposte 14 opere, tra cui il ritratto Fillette en Bleu del 1918, il ritratto di Chaïm Soutine del 1916, il ritratto Elvire au col blanc (Elvire à la collerette) dipinto tra il ’18 e il ’19, e il ritratto Jeune fille rousse (Jeanne Hébuterne) del 1919. Il dottor Paul Alexandre, come abbiamo visto, lo ha sostenuto sin dal suo arrivo a Parigi, aiutandolo anche nel progetto scultoreo delle Cariatidi, oltre che durante i suoi rientri a Livorno nel 1909 e nel 1913. Dalla sua collezione di 12 disegni è stato possibile ammirare alcune Cariatidi tra i quali la Cariatide (bleue) del 1913. Provenienti sempre dalla collezione Netter, nell’esposizione è stato possibile ammirare alcuni dipinti di Chaïm Soutine, come L’Escalier rouge à CagnesLa FolleL’Homme au chapeau e Autoportrait au rideau, eseguite dal 1917 al 1920, di Maurice Utrillo come Place de l’église à MontmagnyRue Marcadet à ParisPaysage de Corse, di Suzanne Valadon come le Trois nus à la campagne, e di molti altri autori.

 

Consigli di lettura:

Alessandra Artale, Modìgliani spiegato a tutti, prima edizione, Editoriale Programma Srl, Treviso, gennaio 2020 (e bibliografia segnalata in appendice); Francesca Marini, Leone Piccioni, Modigliani, collana “I classici dell’arte”, edizione speciale per Il Corriere della Sera, RCS Libri Spa, Milano 2004 (e bibliografia segnalata in appendice); Marc Restellini,  G. Bastianelli (Traduttore), Modigliani e l’avventura di Montparnasse. Capolavori delle collezioni Netter e Alexandre, edizioni Sillabe, Livorno 2019; Casa natale Modigliani, sito https://casanatalemodigliani.it; Modigliani, Amedeo, su Enciclopedia Treccani on-line http://www.treccani.it/enciclopedia/amedeo-modigliani; Chaïm Soutine, su Enciclopedia Treccani on-line  http://www.treccani.it/enciclopedia/chaim-soutine.

(Tratto da Omnibus 28)

Chi ha paura dei pipistrelli?

Nonostante godano di poca popolarità, in realtà i pipistrelli sono animali affascinanti e straordinari, gli unici mammiferi in grado di volare grazie alle loro peculiarità.  

Con l’esplosione della pandemia di Coronavirus, sono state formulate molte teorie sul possibile sviluppo di questa letale malattia. Tra queste, ancora oggetto di studio da parte della comunità scientifica, pare che il virus 2019-nCoV, comparso in Cina, e che pare abbia comuni denominatori con il virus della Sars, sia stato trasmesso da alcuni animali, tra cui i Pipistrelli. Proviamo a conoscerli meglio.

Le leggende popolari e determinati filoni della letteratura (a cominciare dal Dracula di Bram Stoker) hanno trasformato questi animali in mostri pericolosi, creature demoniache che vivono nelle tenebre, pronte a far male agli esseri umani e agli altri animali. In realtà i Pipistrelli sono per lo più innocui, e sono gli unici mammiferi in grado di volare. Molti sono cacciatori notturni (da cui il nome latino vespertilio, da vesper, “sera”, e prima ancora in greco nykterís, da nýcs, cioè “notte”), come il Pipistrello comune (► Pipistrellus kuhlii o Pipistrellus pipistrellus), e possono librarsi in volo grazie ad una membrana tesa fra le dita degli arti anteriori, allungate e sottili. Sono diffusi in tutto il mondo, soprattutto nelle regioni tropicali, e sono prevalentemente insettivori, anche se esistono specie che si sono adattate a nutrirsi di frutti, piccoli vertebrati e perfino pesci, nettare o sangue. Le specie notturne possiedono un efficiente sistema di orientamento nel buio, attraverso l’emissione e la percezione di ultrasuoni, la cosiddetta ecolocazione: mentre il pipistrello vola, emette in continuazione ultrasuoni e calcola la distanza, la forma e le dimensioni degli oggetti, ascoltando il ritorno delle onde sonore, riuscendo così a localizzare e catturare una falena, di evitare di schiantarsi contro un albero e di sfuggire al tentativo di predazione. Esistono quasi mille specie di pipistrelli, sparse in tutto il mondo, che rappresentano circa il 20% di tutti i mammiferi viventi.

Tante specie

Ma vediamo alcune specifiche delle specie. I Chirotteri (dal greco chéir, cheirós, “mano”, e pterón, “ala” ► Chiroptera) sono un ordine di Mammiferi Placentati, provvisti di arti anteriori che nel tempo si sono profondamente modificati e adattati al volo, con coda, spesso presente, ma mai troppo lunga e sorregge l’uropatagio, una  membrana che si estende fino agli arti posteriori e svolge funzioni ausiliarie al volo. Possiedono una dentatura piuttosto variabile, ma comunque formata da denti aguzzi, simile a quella degli Insettivori. Sono animali generalmente poco prolifici: la femmina partorisce un solo piccolo per volta. Quando riposano assumono una caratteristica posizione a testa in giù, mantenendosi aggrappati a un sostegno con le zampe posteriori. I Chirotteri si dividono in due sottordini i Microchirotteri e i Megachirotteri. Il primo comprende numerose specie di taglia piccola, notturne e prevalentemente insettivore; il secondo comprende specie grandi o medie, diffuse nei paesi tropicali dall’Africa alle isole del Pacifico, e sono spesso diurni e frugivori, i Megachirotteri possono raggiungere un’apertura alare di 170 centimetri: per questo sono conosciuti anche come Volpi volanti, che comprendono più di 160 specie. Altri tipi di pipistrelli si sono evoluti, soprattutto nei paesi tropicali, sviluppando diverse predisposizioni alimentari. I Noctilionidi, ad esempio, sono abili a catturare i pesci volando sulla superficie dell’acqua e ghermendo la preda con le zampe, come il falco pescatore; altri sono nettarivori (Macroglossus e Megaloglossus), forniti di una lunga lingua con cui prelevano il nettare dal calice dei fiori, come fanno i colibrì; altri ancora sono ematofagi, cioè si nutrono di sangue: nei paesi dell’America Latina, mucche e cavalli subiscono comunemente salassi da parte dei vampiri, in particolare da esemplari di Desmodus rotundus, una specie molto diffusa, anche se il maggiore pericolo per gli animali e per l’uomo non è il salasso in sé ma le malattie come la rabbia, trasmissibili dal morso dell’animale. In compenso, nel 2003 si è scoperto il ruolo terapeutico della draculina, sostanza anticoagulante presente nella saliva dei vampiri, attiva contro l’ischemia e la trombosi.

Pipistrelli di casa nostra

In Italia sono circa una trentina le specie individuate, di cui solo la metà in Toscana, nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Può capitare di incappare in un pipistrello in difficoltà, ma per soccorrerlo atteniamoci a queste poche e semplici regole, come riportato nella brochure “Primo Soccorso Chirotteri” del Centro Regionale Chirotteri della Regione Piemonte: la prima regola, ovviamente, è contattare quanto prima un veterinario o un Ente specializzato ma, nel caso si debba momentaneamente soccorrerlo, ricordiamoci che i pipistrelli sono animali selvatici, rigorosamente protetti dalla legge (e non possono essere trattenuti in detenzione, ovvero vanno liberati nel proprio ambiente appena guariscono) e non vanno toccati o maneggiati a mani nude perché, spaventandosi, potrebbero mordere; è opportuno raccoglierli con un panno o indossando dei guanti e dar loro da bere, goccia a goccia, un po’ d’acqua con una siringa a cui è stato tolto l’ago; è consigliabile riporre gli animali in una scatola di cartone con piccoli buchi per l’aria, facendo attenzione che la scatola non presenti aperture di diametro superiore al mezzo centimetro perché potrebbero riuscire a fuggire, e lasciare nella scatola un pezzo di stoffa arrotolato nel quale possano nascondersi, circondati da un ambiente tranquillo, senza rumori e dove non vi sia contatto con altri animali. I pipistrelli non costituiscono un pericolo per la salute pubblica: chi ne ospita in casa una colonia non ha nulla da temere, né dagli esemplari, né dalle loro deiezioni. Su grandi depositi di guano di chirotteri, in condizioni di clima caldo-umido (principalmente nelle grotte tropicali), si può sviluppare il micete che causa l’istoplasmosi (Histoplasma capsulatum), ma tale rischio non esiste nel caso dei piccoli depositi di deiezioni dei nostri pipistrelli antropofili, che non determinano alcun problema igienico-sanitario. Tuttavia si ricorda che, come vari altri mammiferi, possono trasmettere all’uomo la Rabbia, anche se si tratta di un rischio assai remoto: in Italia in nessun esemplare è mai stato individuata tale pericolosità.

Riscopriamo questi esseri viventi affascinanti, e impariamo ad amarli e custodirli!

 

Consigli di lettura:

Pipistrelli, di Giuseppe M. Carpaneto – Enciclopedia Treccani dei ragazzi (2006) (http://www.treccani.it/enciclopedia/pipistrelli_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/);  CHIROTTERI, MICROMAMMIFERI, MESOMAMMIFERI, PESCI – Vertebrati del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi di Dino Scaravelli (http://www.regione.toscana.it/documents/10180/70958/testo%20chirott_micro%20mesomammif_pesci/66c3e3f3-63a8-4905-a663-f0740d893202); Primo soccorso Chirotteri, neonati-giovani-adulti (http://www.centroregionalechirotteri.org/download/primo_soccorso.pdf); Draculina Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. https://it.wikipedia.org/wiki/Draculina; Expression of biological activity of draculin, the anticoagulant factor from vampire bat saliva, is strictly dependent on the appropriate glycosylation of the native molecule (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0304416598000828?via%3Dihub); Dagli animali all’uomo, una folla di virus in circolazione (http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2020/01/24/dagli-animali-alluomo-folla-di-virus-in-circolazione-speciale_8b85b586-68a8-49cc-852c-0936f55bf83a.html)

 

Non abbandoniamo i meta-lupi!

A seguito della serie televisiva cult “Game of Thrones”, conosciuta in Italia come “Trono di spade”, che ha avuto il suo esordio nel 2011, vi è stato un boom di acquisti e adozioni di Siberian husky e Alaskan malamute, cani somiglianti ai meta-lupo presenti nella serie e fedeli compagni della famiglia Stark.

Di Gaia Nannicini

I meta-lupi, grossi lupi incredibilmente forti, sono reali. O meglio, lo erano: li si trovava nelle Americhe, 300.000 anni fa. I loro fossili sono stati rinvenuti attraverso il Nord e il Sudamerica, dalle montagne della Virginia fino alla Strip di Las Vegas, al Messico e ancora più a Sud, fino alla Bolivia.
Il nome scientifico è Canis dirus: i meta-lupi non erano tanto più grandi di un moderno lupo grigio, ma con cranio e mascelle di maggiori dimensioni e un morso potente. Probabilmente si nutrivano di grandi mammiferi come i bisonti e mangiavano i resti dei pasti di altri predatori, come gli smilodonti (le “tigri dai denti a sciabola”).

Ne Il Trono di spade questi lupi oggi estinti vengono interpretati da cani Northern Inuit (un mix imparentato con husky e pastori tedeschi, selezionato per somigliare ai lupi) e da un lupo artico. Questi animali vengono immortalati con la tecnica della chiave cromatica – il green screen – e la loro stazza viene ingigantita per replicare quella di un meta-lupo. In seguito vengono aggiunti alle scene, dove i meta-lupi sono leali compagni e guardiani degli Stark. Non sorprende che molte persone ne vogliano uno, o almeno qualcosa di simile.

Ed ecco che arrivano gli husky: il loro pelo ispido grigio e bianco, orecchie a punta e muso da lupo li rendono molto simili ai meta-lupi della serie. “Le persone che incontriamo alle nostre fiere per l’adozione chiamano spesso i nostri cani ‘meta-lupi’”, conferma Angelique Miller, presidente di NorSled, un’organizzazione californiana che si occupa di salvare gli husky.

Gli husky sono una razza piuttosto impegnativa. Hanno un innato bisogno di correre, non a caso vengono impiegati con successo nello sleddog (corsa con i cani da slitta). Sono affettuosissimi con il padrone e con i familiari, ma non sono particolarmente facili da addestrare poiché molto indipendenti, l’educazione quindi va iniziata in tenera età.  Se non fanno attività fisica per almeno due ore al giorno possono diventare piuttosto distruttivi. Ma tanti continuano ad acquistarli senza informarsi, il che si traduce in uno scontro tra stili di vita incompatibili: l’husky è frustrato per la mancanza di esercizio e stimoli adeguati mentre il proprietario non capisce perché il suo cane ‘si comporti male’.

Una moda che in questo caso ha delle conseguenze negative, come spesso è successo con altre tipologie di razze canine presenti in altri film, maniaci delle serie che acquistano frettolosamente cani sulla scia dell’entusiasmo mediatico che poi sono stati abbandonati e che vivono nei canili.

Si è già dimenticato quello che è successo a suo tempo con i Dalmata, celebri grazie al cartone animato della Walt Disney, “La Carica dei 101”?

Anche all’epoca vi fu la moda-mania e un boom di acquisto di questo tipo di cane, con tantissimi abbandoni poi in canili. I Dalmata, cani adorati dai bambini, hanno bisogno di moltissime cure, attenzioni e dispendio di energie, ma il più delle volte i padroni non sono in grado di seguire i loro ritmi perché non hanno voluto informarsi prima sulle esigenze di questi splendidi animali.

I Dalmata, nel momento in cui si sentono trascurati e non vengono gestiti correttamente danno il peggio di sé, per noia, abbaiando senza tregua, tendendo a diventare aggressivi e distruggendo tutto ciò che trovano sul loro cammino. La conseguenza spesso è l’abbandono di questi animali.

I gruppi rescue di Stati Uniti e Regno Unito confermano che dal 2011, quando Il Trono di Spade ha debuttato sugli schermi, il numero di husky in cerca di famiglia è aumentato notevolmente. “Se quando arrivano c’è qualcosa a identificarli, spesso è proprio un nome che proviene da Il Trono di spade”, conferma Swanda, riferendosi ai meta-lupi della serie: Spettro, Nymeria, Estate, Cagnaccio, Vento Grigio e Lady.

Dai dati riportati dalla PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) i centri di accoglienza per animali, presenti nel Regno Unito, hanno registrato un netto incremento di queste razze, arrivando a percentuali del 420%. Da una medesima verifica svolta presso i rifugi di Los Angeles i dati di abbandono si sono triplicati se confrontati con quelli del 2013.

Dan O’Neill è un grande fan de Il trono di spade. Veterinario e professore associato in epidemiologia degli animali da compagnia al Royal Veterinary College di Londra, in Irlanda del Nord ha visitato i luoghi dove è stata girata la serie insieme alla sua famiglia. Essendo un appassionato, capisce l’appeal dei meta-lupi. Ma ha già visto cosa succede quando i cani vengono acquistati frettolosamente sulla scia dell’entusiasmo mediatico. Nell’ultimo decennio, nel Regno Unito si è ampiamente diffusa la promozione di cani brachicefali come carlini e bulldog francesi, dice O’Neill. Questo ha avuto un effetto estremo sull’acquisto di queste razze, inclini a problemi di salute che vanno da patologie degli occhi e della pelle che possono durare tutta la vita oltre a malattie respiratorie croniche.
Oggi, prosegue l’esperto, i gruppi rescue del Regno Unito sono sommersi di questi cani. “È un parallelo perfetto per i meta-lupi”, prosegue, sottolineando che alle conferenze sul benessere canino cui partecipa, la questione ‘husky e Trono di spade’ emerge spesso. Comprare e allevare responsabilmente non sono cose compatibili “quando una razza finisce in questa bolla”, commenta riguardo alle razze che diventano rapidamente popolari a causa dell’esposizione mediatica. “Perché a un certo punto la bolla scoppia”.

O’Neill si chiede cosa accadrà a questa richiesta di husky con la conclusione de Il Trono di spade. “Il fattore novità sarà perduto”, prosegue, e chi fa riprodurre i cani rapidamente per guadagnare vedrà crollare la richiesta. “A quel punto, il problema sarà: che fine faranno tutti quei cani?”. Quando compri un cane sull’impulso di ciò che vedi in televisione, prosegue, lo stai trattando come un accessorio. “Compri l’immagine che ti gira per la testa”. Ma “sono creature viventi e senzienti che diventano meravigliosi membri della famiglia, quando trovano quella giusta”.

Gli attori della serie Tv “Game of Thrones” hanno lanciato un appello ai propri fan dopo l’aumento di abbandoni di Siberian husky e Alaskan malamute.

 

Jerome Flynn (Bronn) ha aderito a una campagna animalista della PETA e in un video dice: “Acquistare cani per capriccio può avere conseguenze nefaste. I canili di tutto il mondo stanno segnalando un’impennata del numero di husky abbandonati perché i padroni, attirati dall’aspetto del cane, non prendono in considerazione la quantità di tempo, pazienza e denaro necessari a prendersi cura di questi animali”.

Peter Dinklage (Tyrion Lannister) tempo fa aveva cercato di sensibilizzare i fan su questo problema degli abbandoni : “Mi rivolgo a tutti i meravigliosi fan di Game of Thrones: comprendiamo che, a causa dell’enorme popolarità dei meta-lupi, molti decidano di acquistare husky, ma questo non solo danneggia tutti quei cani meritevoli di adozione, ma causa anche abbandoni di esemplari di cui la gente non riesce a prendersi cura”.

Quando si decide di adottare un cane, è necessario conoscerne le caratteristiche e le attitudini, per capire se queste possono collimare con il nostro stile di vita, perché in caso di incompatibilità ne pagheremmo entrambi le conseguenze, in primis il cane, che spesso viene abbandonato. Conoscere è necessario perché non si acquista un oggetto, ma entra nella nostra famiglia un altro essere vivente e sensiente con le proprie caratteristiche ed esigenze che ci accompagnerà fedelmente per tutta la sua vita.

Inoltre se potete non acquistate ma ADOTTATE, consapevolmente, visitando i canili vicino a dove abitate, e più volte, cercando di conoscere meglio l’amico che avete deciso di far diventare il vostro compagno di vita. Se invece volete acquistare una determinata razza affidatevi solo ad allevatori seri e competenti, non fidatevi dei cuccioli a basso costo. Spesso, acquistando spinti dalla moda, si rischia di alimentare il business di quelle persone che allevano solo per il guadagno facile ignorando il benessere dell’animale e la selezione delle caratteristiche fisiche e caratteriali della razza, a discapito degli animali stessi.

 

Consigli di lettura:

“Games of Thrones: la moda degli husky-metalupo e abbandono dei cani in aumento” (https://www.ambientebio.it/animali/games-of-thrones-husky-metalupo-e-abbandono-dei-cani-in-aumentano/?fbclid=IwAR1Z2TnczmSnLld1-AKGAmy44n-orZPLJTFwppFgdNPyFp1EYGZ3bbmwaYw)

 

Con ‘Il trono di spade’ è meta-lupo mania, e gli husky ne pagano il prezzo

http://www.nationalgeographic.it/natura/animali/2019/05/06/news/i_fan_de_il_trono_di_spade_vogliono_un_meta-lupo_e_gli_husky_ne_pagano_il_prezzo-4395495/

(Articolo tratto da Omnibus 26, rivista dell’ASD Artemide)

Sulla via per Malavalle

Un percorso nel bosco sulle tracce dell’Eremo di S. Guglielmo, a Castiglione della Pescaia, insieme ai nostri amici a quattro zampe.

di Fabio Figara e Gaia Nannicini

Il tempo era incerto, a tratti piovoso; si scorgevano già, quà e là, le prime foglie indorate farsi largo tra la verde coperta che avvolgeva il percorso, ben segnalato, per giungere all’Eremo medievale di S. Guglielmo. Un viaggio nella Storia, immersi nella Natura, sulle tracce del Santo eremita, inizialmente spietato guerriero di probabili natali francesi che scelse come luogo della penitenza la Maremma, in un punto talmente malsano da esser chiamato proprio “Malavalle”, nelle immediate vicinanze di Castiglione della Pescaia (GR).

 

Guglielmo d’Aquitania

 Di questa figura molti aspetti restano tuttora piuttosto oscuri, a cominciare dalla sua reale identità. Tutti i suoi biografi hanno preso spunto dal libellus di un discepolo del santo, Alberto, aggiungendo liberamente – spesso influenzati da leggende sorte nel frattempo – fatti non documentabili e personali interpretazioni. Nella ricostruzione storica della vita di san Guglielmo di Malavalle si identificano, infatti, le vite di altri personaggi, vissuti anche in periodi storici diversi. E così, il santo padre dell’Ordine guglielmita è divenuto Guglielmo X duca d’Aquitania, vissuto nel primo trentennio del XII secolo, o un ben più generico san Guglielmo d’Aquitania; in alcuni casi è ancor oggi chiamato semplicemente san Guglielmo, senza considerare che nella Chiesa Cattolica, oggi, «si festeggiano ben sedici Santi e trentadue Beati» con questo nome; e ancora, è stato confuso grazie alla diffusione del ciclo epico della Chanson de Guillaume, soprattutto nei paesi centro-europei, con san Guglielmo di Gellone, vissuto nell’VIII secolo e canonizzato nel 1066.

 

L’Ordine dei Guglielmiti

Tuttavia di certo c’è questo: dall’esperienza di quell’uomo dal corpo coperto di piaghe ma dalla tempra ineguagliabile sorse, agli inizi del XIII secolo, un vero e proprio Ordine: quello dei Guglielmiti, che ebbe una larga diffusione in Germania, nei Paesi Bassi, nel nord della Francia, addirittura in Boemia ed in Ungheria. Varie vicissitudini e riorganizzazioni hanno portato i Guglielmiti ad essere conosciuti come Benedettini, ma di fatto la Chiesa, a metà del XIII secolo, volle assemblare sotto un unico Ordine tutte le comunità eremitiche: l’Ordo Eremitarum Sancti Augustini. I Guglielmiti non si sentirono mai degli appartenenti all’Ordine agostiniano e continuarono a seguire la loro vocazione eremitica che, più tardi, li portò ad abbracciare uno stile di vita cenobitico, di pari passo con la diffusione oltralpe del loro Ordine; diviso poi in tre grandi Province facenti ognuna capo ad un Priore e decentralizzando il controllo da parte del monastero di Malavalle, la “casa madre”, l’Ordine guglielmita iniziò il suo lento declino. Gli Agostiniani non condivisero la scelta dei Guglielmiti di non obbedire alle decisioni di Roma, ma anzi iniziarono a celebrare san Guglielmo di Malavalle, attribuendogli il ruolo – insieme ad altri – di santo protettore proprio dell’Ordine agostiniano, come dimostrano le opere artistiche create in ambiente agostiniano, la maggior parte delle quali sparse, oggi, in piccole ma graziose chiese della Maremma. Per lo studioso, ma anche per il semplice appassionato di Storia, la ricerca dei luoghi che hanno visto la crescita spirituale di Guglielmo e che oggi conservano le sue reliquie e le opere a lui dedicate, può diventare un affascinante percorso storico, archeologico ed artistico compiuto attraverso i meravigliosi paesi della Toscana meridionale.

La scelta dell’eremita

Come molti altri suoi contemporanei, Guglielmo decise di abbandonare la militia saecularis per abbracciare una vita più aderente al modello di povertà proposto dal messaggio evangelico, spogliandosi di ogni bene e rifugiandosi in luoghi sperduti alla ricerca della solitudine e della contemplazione, divenendo appunto un eremita (dal greco érēmos, «colui che vive solitario»). L’eremitismo è un fenomeno che nasce e si sviluppa in Oriente sul finire del II secolo dopo Cristo: gruppi di eremiti prima e singoli individui poi, iniziano a sentire il bisogno di allontanarsi dalla civiltà, che non tiene conto dei valori dell’anima, e vanno alla ricerca della perfezione spirituale tramite rigide pratiche ascetiche, quali il digiuno e la castità unite a meditazione e continue preghiere. Per far ciò, e per allontanarsi dai caotici centri abitati dove è impossibile allenare lo spirito a tali pratiche, l’eremita fugge verso i deserti, verso luoghi abbandonati, cibandosi di quel che trova. È un’esigenza prodotta da un filone di pensiero, tipico dell’Oriente cristiano, che ritiene la materia fonte di ogni malignità: l’anima (il Bene) si antepone così al corpo (il Male).

Tale fenomeno riprende nuovamente vigore, ad opera soprattutto di laici, nei secoli centrali del Medioevo e le prime fondazioni

interessano proprio luoghi della Toscana, quali Monte Pisano, la Lucchesia e la Garfagnana, la Maremma e le isole vicine.

Ma, a differenza di quanto avveniva nel II secolo, attorno alla figura dell’eremita medievale venne a formarsi una comunità di uomini con ideali di rinnovamento, che preferivano vivere in costruzioni dalle strutture semplici e spoglie – quando addirittura non in grotte – anziché in grandi e fastosi edifici; contestavano inoltre la proprietà e le rendite ecclesiastiche, nonché il lusso sfrenato delle chiese: insomma, una ricerca spasmodica della povertà assoluta. Questi eremiti, quindi, oltrepassando gli orientamenti della comunità apostolica primitiva, ovvero la comunione dei  beni e la sobrietà di vita, trascorsero la loro vita nella più assoluta povertà, adottando vesti povere, sdegnando lo sfarzo dei paramenti e degli arredi e riscoprendo l’importanza del lavoro manuale, da cui si traggono i mezzi di sostentamento e inasprendo pratiche ascetiche come il digiuno, le veglie prolungate e le flagellazioni.

Inizialmente solo nel monachesimo benedettino erano previste pratiche ascetiche di singoli cenobiti, cioè di monaci viventi in comunità organizzate,  al fine di raggiungere un elevato grado di perfezione spirituale ed  individuale. Ma ciò non era più sufficiente per le nuove esigenze (di natura spirituale) dell’epoca.

Nei secoli XI e XII si provò così a realizzare una forma di vita ascetica severa pur permanendo all’interno del cenobio; nacquero addirittura nuovi ordini religiosi di tipo eremitico: tra i più noti ricordiamo l’Ordine camaldolese, fondato da Romualdo di Ravenna (952 – 1027) nel 1012 circa a Camaldoli (Arezzo), l’Ordine dei Vallombrosani, fondato da san Giovanni Gualberto nel monastero di Vallombrosa, nei pressi di Firenze, l’Ordine dei Certosini, fondato a Grenoble da Bruno di Colonia, oppure ancora l’Ordine dei Cistercensi nato a Citeaux. Già nel 1145 molte comunità eremitiche nate in Francia, con l’aumentare dei confratelli, divennero cenobi veri e propri, e si legarono ai già esistenti ordini di Cìteaux, di Prémontré o di Cluny; per esempio in Toscana la comunità di asceti sorta in seguito alla morte di san Galgano, di cui seguiva l’esempio di vita, fu inglobata dall’Ordine cistercense (la chiesa e l’eremo sono visitabili a Chiusdino, Siena). Ma l’eremitismo solitario, e spesso indipendente da qualunque istituzione, desidera soltanto l’esperienza mistica del colloquio con Dio e nient’altro. L’eremita  vuol rimanere solo ed in costante contatto con il Signore, solo nelle intemperie, solo nella fame, solo nella lotta con il demonio. Così e in nessun altro modo può raggiungere la perfezione: tramite la sofferenza, tramite il martirio, quest’ultimo apice del lungo processo di perfezionamento spirituale che passa attraverso il cenobio e l’eremo, così come scriveva Bruno di Querfurt, arcivescovo e missionario alla corte di Ottone III – con cui era imparentato – divenuto a sua volta eremita. Anche Ottone di Frisinga, nella sua Chronica sive Historia de duabus civitatibus, terminata nel 1146, elogiò l’eremitismo. Alla fine del settimo libro egli esalta i monaci del suo tempo in quanto ultimi ed ormai unici veri cittadini della Civitas Dei in un mondo di decadenza, la cui fine è individuata da Ottone come prossima. Per quanto riguarda Guglielmo, Beato ufficiale della Chiesa romana e santo per denominazione popolare, si possono rintracciare varie fonti, documentarie, artistiche e archeologiche, che presentano però manipolazioni di ogni genere. Egli vive la sua esperienza mistica e religiosa in un periodo in cui è preceduto, seppur di poco, da personaggi di grande spessore mistico come Bernardo di Chiaravalle, teologo di fama europea, e Norberto da Xanten, fondatore dei premonstratensi, e seguito da altri quali Francesco d’Assisi e Domenico da Caleruega; inoltre Guglielmo non ha lasciato alcun documento scritto, e non ha certo avuto biografi del calibro di Tommaso da Celano.

La vicenda guglielmita, quindi, si colloca nel quadro storico dello sviluppo dell’eremitismo medievale, che conobbe proprio nel XII secolo e in Toscana il suo apogeo.

L’eremo

La Maremma, come buona parte dell’Italia centrale, conosce tra i secoli XII e XIII un periodo d’intensa attività costruttiva: chiese ed eremi più antichi, costruiti soprattutto in legno, vengono riedificati in pietra. Il Romanico inizia a diffondersi tardi, giusto un secolo prima, ma è uno stile che interessa molto sia l’architettura religiosa che quella civile, contemporaneamente all’affermazione dei primi poteri signorili di singole famiglie, che si accaparrano cariche e diritti pubblici.

Nella Toscana meridionale i due rami principali di eremiti, e gli unici anche a dimostrare una certa singolarità architettonica, erano indubbiamente gli Agostiniani e i Guglielmiti.

L’Eremo di S. Guglielmo (S. Guglielmo (Rov.a, (Castiglione della Pescaia, Grosseto, Carta d’Italia Fo 127, II NE.), inizialmente un semplice oratorio con funzione di cappella sepolcrale costruito proprio sul luogo di sepoltura del Santo, divenne per l’ordine guglielmita la casa madre, il punto di riferimento anzitutto spirituale ma anche artistico e architettonico. Sperduto nell’entroterra, abbandonato a sé stesso e completamente avvolto dalla vegetazione della macchia mediterranea, è stato costruito in una zona di bassa collina nel luogo esatto dove l’eremita visse l’ultimo anno della sua vita. Venendo da Castiglione della Pescaia, inoltrandosi nel bosco per pochi chilometri (seguire le indicazioni) e costeggiando l’acquedotto, si scorgono i resti delle mura, dai quali si può risalire alla pianta dell’eremo; esso ricalca la struttura dei monasteri benedettini: presenta una corte di fronte alla chiesa addossata sul lato sinistro, secondo uno stile riscontrato anche nella pianta del Monastero di S. Rabano presso i Monti dell’Uccellina, e degli ambienti, ovvero le celle dei monaci, disposte intorno al chiostro centrale. Si possono addirittura scorgere i resti di una torre. Dallo studio delle strutture (per le quali si ipotizza che in origine fossero addirittura a due piani per la presenza di un vano scale vicino all’ingresso principale) si denotano due momenti principali della costruzione dell’eremo: il primo periodo, in cui si rileva la costruzione di un piccolo e primitivo eremo con annessa cappella destinata a conservare le spoglie del santo, che subì probabilmente notevoli danni nel 1224 durante una campagna militare dei senesi contro Grosseto; il secondo periodo tra il 1227 ed il 1250, in cui venne ricostruito con il consenso di Papa Gregorio IX, chiesa addossata compresa. Da quel momento in poi fu mèta di pellegrinaggi che contribuirono alla prosperità della comunità divenuta ormai cenobitica. Nell’architettura eremitica sono tuttavia le chiese a rappresentare un punto di riferimento per l’individuazione di determinate caratteristiche: costruite con unica navata centrale, spesso prive di abside e pochi locali cenobitici.

Ma l’architettura guglielmita rompe invece con questa piccola tradizione, dimostrando proprio nella struttura della chiesa addossata alla parete principale della cinta muraria, risalente alla prima metà del XIII secolo e oggi inaccessibile senza gli adeguati permessi, tutta la propria singolarità, e confermando l’impossibilità di individuare un preciso ed inconfondibile stile delle costruzioni facenti capo a gruppi di eremiti. La chiesa ha una lunghezza di circa quattordici metri, costruita in stile romanico con un semplice schema icnografico ad unica navata centrale rettangolare; è divisa in tre campate da solidi semipilastri, senza contrafforti esterni, su cui sono impostati due archi trasversali che reggono la volta a botte a sesto leggermente acuto.

 

L’iconografia

Le scelte penitenziali di San Guglielmo hanno influenzato tutta la produzione iconografica del Beato: l’elmo, i ceppi, la cotta di maglia (indossati per penitenza), la barba incolta, il saio monastico, il bastone da eremita, (che lo hanno fatto confondere con Sant’Antonio Abate), il libro e le lotte furibonde con il demonio, il drago citato anche nel Libro dell’Apocalisse. Guglielmo è noto, infatti, per l’uccisione di una «vipera grandissima». Il luogo dove decise di vivere era infestato infatti da questa bestia terribile: gli apparve così un angelo inviato da Dio, il quale lo pregò di affrontare e sconfiggere l’animale, liberando così la zona dall’infestazione. Per riuscire in tale scopo, gli donò un bastone biforcuto, con il quale egli trafisse e sconfisse la fiera demoniaca. Vediamo quindi spesso un drago con la coda arricciolata dibattersi sotto i piedi del santo eremita e venire infilzato dal bastone di quest’ultimo.

 

* * *

 

Seguire le orme e le tracce di San Guglielmo significa avventurarsi in un percorso affascinante, scoprendo paesi e tradizioni di uno dei luoghi più affascinanti d’Italia, la Maremma: un’esperienza che abbiamo condiviso con i nostri amici a quattro zampe, e che consigliamo sicuramente a tutti. Arrivederci al prossimo Cancamminiamo!

Tratto da Omnibus 25

Il fascino delle scaglie di drago

Ispira artisti e scrittori da sempre, e la sua natura è mutevole in base ai periodi storici e alle culture. Anche oggi siamo colpiti dal fascino di questa creatura multiforme e leggendaria.

Il termine “Drago” pare derivi dal sanscrito darca (vista), dalla radice darc, divenuto poi in greco dràkon o drakón, che proviene da dérkesthai (guardare), perché una delle caratteristiche di questo animale mitico e favoloso, rappresentato spesso come un grosso rettile alato che sputa fuoco, sarebbe stato lo sguardo penetrante e paralizzante. In latino draco, divenne un simbolo di potenza, tanto che già le coorti romane portavano sulle insegne un drago rosso, usanza presa da popolazioni orientali quali Sciti e Persiani. Tale insegna passò poi agli imperatori bizantini e, da lì, alle nazioni europee, come oggi il Galles. Nell’Estremo Oriente assume fattezze e sembianze di divinità, è simbolo di saggezza e di forza soprattutto spirituale, segno di regalità e di potenza e viene raffigurato in posizione centrale tra acqua, terra e cielo.

In Europa, nel corso del Medioevo, assume le fattezze del diavolo, del Male per eccellenza, dell’eterno nemico che infesta soprattutto le zone abbandonate e paludose.

La sconfitta del drago (che, nel frattempo, tra XII e XIII secolo “acquisisce” ali giganti da pipistrello) fa parte della simbologia iconografica di molti Santi: il drago resta schiacciato sotto i piedi della Vergine Maria, o ucciso dall’arcangelo Michele, da san Giorgio e anche da personaggi come san Guglielmo di Malavalle.

La Toscana, in particolare, è luogo di presenza di draghi ben noto alle cronache medievali. Secondo recenti studi condotti da molti studiosi (anche sulle reliquie di San Guglielmo), i continui ritrovamenti di ossa di cetacei come la balenottera comune o il capodoglio sulle spiagge avrebbero ispirato le leggende della presenza di draghi. La fine dell’enorme serpe affonda quindi le radici nella tradizione giudaico-cristiana come abbattimento del Male per eccellenza: anzitutto nel libro di Daniele, ma anche, e soprattutto, nell’Apocalisse di san Giovanni; dall’apparizione in cielo della bestia, al combattimento con l’arcangelo Michele e i suoi angeli, al riconoscimento del demonio, che va a lottare contro tutti coloro che credono e seguono i dettami divini, ossia la discendenza della donna apparsa in cielo. Nei Bestiari medievali capita che venga confuso o assimilato ad altri animali demoniaci come il basilisco. Presenta di solito la testa crestata, a volte di mammifero, la lingua biforcuta, le zampe artigliate di numero sempre diverso. Quindi, a volte sembra un serpente acquatico, a volte un mammifero, e la sua figura  arricchisce i portali e i capitelli di numerose cattedrali, che possiamo ammirare ancora oggi.        FF

(tratto da Omnibus 25)

 

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